venerdì 15 maggio 2015

Le lacrime di fra Dulbino e la polvere dell'anima


Grandi uccelli giocavano tra i raggi del sole...

Era piovuto fino a pochi minuti prima, acqua mista a nevischio che aveva inzuppato ogni cosa. Ma ora le nuvole si stavano sciogliendo e un accenno di tepore andava a riempire l'aria.
Quella tiepidezza unita allo sciabordio dell'acqua contro la riva del lago favoriva il cullarsi come in un sonno.
A volte nostro fratello corpo ha le sue esigenze e bisogna essere indulgenti. E poi non era forse Dio che ci stava facendo quel dono?
Rimasi a fissare l'acqua che andava acquietandosi: le onde perdevano sempre più la loro spuma e si abbassavano d'intensità. Grandi uccelli giocavano tra i raggi del sole che filtravano tra le nuvole residue che ancora coprivano il cielo.
Eravamo ormai da tre giorni fermi a Luvino e rivedendo le persone della mia infanzia, ascoltando i loro ricordi, un senso di nostalgia mi stava riempiendo. Come quando davanti ad un camino acceso gli odori ti trasportano in mondi dove non sei mai stato ma dove capisci che saresti a tuo agio.
Io invece quei mondi li conoscevo bene: erano la mia infanzia, le corse tra le case basse con gli altri ragazzi, l’adolescenza, il profumo dell’acqua dolce e della resina dei pini.
Ero da solo in riva al lago, dove il paese finisce e la strada curva attorno allo sperone di roccia.
Mio fratello Giovanni, dove sarà adesso? E i miei genitori? Cammineranno ancora su questa terra o sorella morte li avrà già chiamati e portati davanti a Dio?
Gervasio, compagno di giochi di Giovanni, mi aveva raccontato di quando la mia famiglia umana aveva lasciato Luvino (*) per andare in cerca di fortuna al di là delle montagne. Ma dalle sue parole avevo capito che non volevano più vivere lì dove ogni pietra e ogni albero gli ricordavano di me, che li avevo lasciati per seguire i pazzi del pazzo Francesco.
Forse Gervasio aveva ragione? Siamo pazzi a camminare scalzi e morire di fame e di freddo… E per cosa poi? Per essere insultati dalla gente e scacciati dai preti a cui ricordiamo con carità e dolcezza la loro grande dignità che spesso calpestano per andare dietro al mondo e alle sue pompe, per usare le parole del Santo Evangelo?
Però poi penso che camminiamo scalzi e moriamo di fame e di freddo anche per poter annunziare liberamente e con verità quelle Sante Parole per cui tanti prima di noi morirono anche  corporalmente oltre che nei desideri. Per essere soli col Solo quando preghiamo, senza niente e nessuno che si frapponga tra noi e il Nostro Signore e Padre Dio.
Quanti pensieri! Quanti macigni nell’anima e sul cuore! Quanta pesantezza nel cammino dello spirito!
Spesso mi ero ritrovato a vivere queste sensazioni, ad avere questi pensieri, e ogni volta mi ero visto come in un baratro, da cui non vedevo più la luce dell’uscita, in cui sentivo solo voci di condanna, di miseria, di scoraggiamento.
E ogni volta era stato frate Francesco a raccogliermi e, dolcemente, a riportarmi sulla strada.
Vedevo poco distante frate Silvestro che con fatica cercava di alzarsi da terra, aggrappandosi all’albero cui finora si era poggiato per dare un po’ di riposo a suo fratello corpo affaticato dagli anni.
Gli corsi incontro e gli porsi una mano per aiutarlo. Poi quando vidi che non riusciva a farsi forza sulle gambe, perché la sua età gliele aveva infiacchite (ma anche gli sforzi, i digiuni, i lungi cammini per spostarsi da una paese all’altro), allora lo abbracciai e feci delle mie gambe le sue, fino a che non fu in piedi.
“Grazie fratello Dulbino, bastone della mia vecchiaia!” mi disse col suo sorriso semplice e disarmante e i suoi occhi chiari.
Lui, di cui frate Francesco diceva che parlava con Dio come l’uno amico dell’Altro, diceva che ero il bastone della sua vecchiaia! Quale gioia invase l’anima mia!
Per un attimo i cattivi pensieri lasciarono la mia mente, ma poi tornarono ad assalirla e a spingerla giù nel pozzo nero dell’oscurità.
Sapevo che tutto questo era lavoro di colui che è persin meglio non nominare, che allontana dalla luce per nascondersi nel buio della menzogna.
“Cosa c’è, fratello? Ho visto turbato il tuo volto, prima, mentre fissavi l’acqua e ho immaginato che innumerevoli pensieri attraversavano la tua mente e la tua anima” mi chiese Silvestro.
Io rimasi a guardare il niente davanti a me. Quindi risposi:
“Hai ragione, fratello Silvestro. Da quando sono qui a Luvino, ai pensieri che già affollano la mia mente sulla nostra vita, il nostro peregrinare, si aggiungono i ricordi e le domande sulla mia famiglia di origine. È male tutto ciò?”
“Dulbino, fratello e figlio carissimo, chi di noi non ha o non ha avuto questi pensieri? Chi può dire di essersi lasciato totalmente alle spalle la sua vita precedente? Io stesso quante volte ripenso a quando ero sacerdote nel secolo e non conoscevo ancora la santa povertà? A quando ho accusato, ingiustamente, frate Francesco di non avermi pagato le pietre per ricostruire San Damiano ed egli ha risposto ricoprendomi di monete d’oro e sorridendomi con compassione? Non dimenticherò mai quello sguardo di misericordia… Ed è stato quello sguardo che mi ha fatto capire come io, sacerdote e per di più anziano, fossi ancora attaccato alle cose del mondo! Ed ora eccomi qua, costretto a farmi aiutare da te per rialzarmi da terra. Ma è proprio questo che ho imparato: nessuno di noi è solo, nessuno può dire di essere sufficiente a sé stesso, anche se giovane e forte. Ci sarà sempre qualcosa che ci impedirà di rialzarci quando cadiamo. Abbiamo tutti bisogno l’uno dell’altro e, soprattutto, abbiamo bisogno tutti di Dio.”
E nel dire così, frate Silvestro alzò gli occhi verso il cielo e i suoi occhi limpidi si riempirono di lacrime.
Come dicono le Sante Parole della Scrittura, nulla viene se non voluto da Dio, e quelle parole erano proprio per me.
Nessuno mai avrebbe cancellato, ora o in seguito, quelle tenebre dell’anima mia, se non Dio. Ma avrei sempre trovato qualcuno a cui aggrapparmi.
Un rumore di ciottoli smossi ci fece girare e la figura piccola e smagrita di frate Francesco ci venne incontro.
“Fratelli! Finalmente vi ho trovati! Sapevo che tu, Dulbino, non potevi stare lontano dalle acque del tuo lago!”
Quindi andò verso frate Silvestro, gli si inginocchiò dinanzi e gli baciò le mani.
“No, fratello! Perché?” protestò l'anziano frate.
“Lo sai perché, fratello Silvestro. Perché dell'altissimo Figlio di Dio nient'altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue suo che voi sacerdoti ricevete e che voi soli amministrate a noi piccole creature.” **
Poi Francesco si alzò e continuò:
“Di cosa stavate parlando? Delle cose di Dio?”
“Delle cose degli uomini, frate Francesco, e quindi delle cose di Dio” rispose frate Silvestro.
“E' vero fratello, non c'è niente al mondo che non sia anche di Dio, perché tutto e tutti siamo sue creature.”
Gli occhi di Francesco saettavano da Silvestro a me e tornavano a lui.
“Cosa turba il tuo cuore, fratellino?”
Io rimasi in silenzio; non sapevo da che parte cominciare a raccontargli ciò che passava nella mia anima.
E allora frate Silvestro prese a dire:
“Il passato, i dubbi, le incertezze macerano la mente e il cuore del nostro giovane fratello. Gli ho detto che è umano tutto ciò, e ora aggiungo che tutto si può in Colui che ci da’ la forza.”
“Certamente, Silvestro! Onoro la saggezza che alberga in te e che ti ha suggerito queste parole! Noi non siamo soli” disse poi volgendosi verso di me “ma in ogni cosa abbiamo un Padre che conosce ogni capello del nostro capo. Non vuoi che conosca anche i nostri pensieri, per quanto profondi e cupi possano essere?”
Francesco pose una mano sulla spalla di Silvestro e l'altra sulla mia. E continuò, volgendosi a me:
“Dio non cancella la tua storia, ma non permette che il suo ricordo ti faccia del male; basta che ti affidi a Lui, che Glielo chiedi.”
Gli occhi di frate Silvestro sembravano quelli di uno che avesse la febbre alta, ma capivo che erano infiammati d'amore per il Signore. Pareva che il suo spirito, alle parole di Francesco, avesse cominciato a volare, a cercare la gioia che da’ la presenza dell'Altissimo.
Frate Francesco raccolse le sue mani sul petto, come l'avevo visto fare tante volte quando pregava. Sembrava volersi abbracciare. Ma poi capii che sentiva invece l'abbraccio di Gesù al suo povero corpo e alla sua povera anima. E fissandomi disse:
“Lasciati amare da Dio, Dulbino, fratello carissimo! Lascia che Dio penetri nella tua vita, abbatta le barriere che hai messo tra te e Lui e operi in te. Chiediglielo sempre, con le lacrime, tra le suppliche, in ginocchio. ChiediGlielo e Lui ti esaudirà, e allora tutta la tua vita sarà nelle Sue mani e tutto sarà nuovo, tutto avrà un nuovo inizio. Egli l'ha promesso: ti darà un cuore nuovo! Come l’ha dato prima di te a tutti i suoi figli! Dio rispetta le nostre scelte, ma sta alla porta e bussa: aspetta che noi Gli apriamo e Gli permettiamo di fare nuova ogni cosa. Lasciati amare e nulla ti apparirà più come una montagna insormontabile, come una notte buia e senza stelle ad indicarci il cammino.”
Poi venne da me e mi abbracciò, e io sentii come catene cadere dentro di me, una fiamma bruciarmi nell'anima e contemporaneamente un soffio d'aria fresca spazzare la pesantezza del mio passato.
“Lasciati amare da Dio, Dulbino. Ed Egli sarà la risposta ad ogni tua domanda e la tua forza per sempre.”
I miei occhi cominciarono ad appannarsi e vedevo Francesco e Silvestro come dietro una parete d’acqua: erano le lacrime che scendevano a rigare il mio viso. Cercai di asciugarle con le mani, ma più ne toglievo e più ne scendevano.
“Scusate… “ mormorai.
“E perché? Non vedi che anche noi piangiamo con te?” disse Francesco.
Ed era vero: i miei due compagni piangevano e capii dai loro volti che le loro erano lacrime di gioia, gioia per me.
“Le lacrime sono un dono di Dio” continuò Francesco. “Ognuna di esse lava e purifica la nostra anima.”
Restammo così per un po’, non so quanto, ma il tempo che bastava per tornare coi piedi su questa terra dopo esser stati in cielo davanti al trono dell’Altissimo.
“Ed ora” ruppe il silenzio Francesco “andiamo fratelli, abbiamo ancora tanta strada da fare!”

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(*) Nome antico dell’attuale Luino, sul lago Maggiore
(**) “Testamento di Francesco”, 10 (1226)

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